Descrizione : La libertà e i suoi fantasmi
Tra potere e libertà d’espressione una lotta che non avrà mai fine, né confini.
C’è una piccola storia tedesca che pochi conoscono, che nessuno ha mai raccontato. Una ignobile, orrenda storia, accaduta nel 1943, periodo nel quale anche la Storia, dell’Europa e del Mondo, era ignobile e orrenda. Ma questa piccola storia voglio raccontarla adesso per la violenta forza simbolica che esprime, per il valore di paradigma del rapporto tra libertà del pensiero e potere oppressivo che è in grado di rappresentare.
Nel 1943 viveva e lavorava in Germania, a Berlino, Karlrobert Kreiten, pianista ventisettenne. Per unanime riconoscimento della critica, dei maestri e dei colleghi era uno dei più dotati talenti musicali allora esistenti. Nel 1933, a soli diciassette anni, Kreiten si era aggiudicato il prestigioso premio “Felix Mendels- sohn”; aveva poi avuto come maestro, a Vienna, Claudio Arrau; aveva suonato con Wilhelm Furtwangler; da anni teneva concerti di grande successo in Germania e in tutta Europa. Tuttavia il giovane Kreiten aveva un vizio, quello di pensare, con la propria testa. Un vizio pericolosissimo per un suddito del Reich. Così nel marzo 1943 commise un’imprudenza. Un pomeriggio in casa di sua madre, a Berlino, si trovò a chiacchierare con un’amica di lei, la signora Ellen Ott-Monecke.
Si sentiva tranquillo Karlrobert quel pomeriggio, rilassato, e si lasciò andare a qualche commento sulla guerra in corso. Era appena terminata la battaglia di Stalingrado e il giovane pianista espresse l’opinione che la guerra fosse ormai perduta e che Hitler fosse uno scellerato. Non sappiamo quanto Ellen Ott-Monecke fosse realmente amica della signora Kreiten. Sappiamo per certo che era un’informatrice della Gestapo. Due mesi dopo, nella città di Heidelberg, al termine di un concerto, il pianista venne arrestato. Fu processato e condannato per tradimento e disfattismo. Lo impiccarono l’8 settembre di quello stesso anno.
La storia è agghiacciante sotto diversi aspetti. Un potere tiran- nico assassina un oppositore. Basterebbe. Ma non basta: l’op- positore è giovane; è un grande artista, un uomo che ha tanta bellezza e armonia da regalare all’umanità. Infine, l’oppositore non è tale, in realtà. Kreiten non complottava, non ciclostilava in segreto volantini sovversivi, non agiva in alcun modo contro il governo. Viveva solo per la musica, non si occupava d’altro. Fu ucciso solo perché, un maledetto pomeriggio, sentendosi sicu- ro, nel salotto di sua madre, aveva lasciato cadere qualche con- siderazione critica sulla guerra. Sarebbe bastato che qualcuno, in quel momento, l’avesse chiamato al telefono o che lui si fosse ricordato di un vecchio impegno… sarebbe sopravvissuto.
Ma il potere dei tiranni è fatto così: è costruito sulla paura.
Paura che il popolo ha del tiranno; ma soprattutto la paura che il tiranno ha del popolo. La consapevolezza della propria illegittimità, dunque della propria debolezza morale, lo porta a diffidare ad ogni stormir di fronda, a puntare la pistola contro ogni fremito di intelligenza, di propensione all’analisi, perché ovunque c’è intelligenza, lì c’è capacità critica e dunque la tirannide è minacciata.
Il gerarca nazista Von Student diceva: «Ogni volta che sento pronunziare la parola cultura, mi viene da portare la mano alla pistola». Più chiaro di così.
Sarebbe bello poter dire: …d’accordo, ma questa è roba di settanta anni fa. Oggi i valori della democrazia imperano nel mondo. No, non nel mondo. Non in Iran, dove gli oppositori del regime teocratico vengono arrestati e assassinati; in prima fila gli intellettuali, come il regista Jafari Panhai, gente colpevole di pensare. Non in Cina, dove puoi essere fucilato anche solo per aver navigato in internet. Non in Birmania, Nigeria, Zimbabwe, Sudan, Cuba, in gran parte delle repubbliche ex sovietiche rette da avidi despoti post-comunisti…
Ma allora sarebbe bello poter dire: d’accordo, lì sono al potere delle dittature, ma in tanta parte del mondo, e specie in occidente, abbiamo delle democrazie parlamentari. Non sempre, non ovunque. La Russia è un paese organizzato secondo una costituzione democratica. Pure, Anna Politowskaja è stata assassinata, al pari di altri giornalisti, politici, imprenditori critici verso il governo. In realtà, da quelle parti, la gente non si sente molto tranquilla a dire quel che pensa, se quel che pensa è molto diverso dai messaggi che emana il potere politico, amplificati da un sistema di media quasi totalmente conformato alla linea governativa. Discorso analogo si può fare per la Bielorussia; in una certa misura anche per l’Ucraina. Come abbiamo già detto, nelle altre repubbliche ex URSS la situazione è anche peggiore.
Qui allora bisogna aprire un discorso particolare, da fare con grande attenzione, perché si può rischiare di essere fraintesi. Appare chiaro che la democrazia non è e non potrà mai essere un discorso di forma. Che la mia libertà, i miei diritti siano ampiamente garantiti sulla carta mi interessa poco, quando poi, nei fatti, il loro esercizio mi viene impedito con la forza, dove per forza dobbiamo intendere molte cose. Forza non sono solo il manganello o le manette: forza è anche la semplice minaccia della forza stessa come di altri danni o pregiudizi, sul lavoro, nelle proprie legittime aspirazioni di successo, nel proprio patrimonio, nella propria onorabilità. Ci sono governi pseudo-democratici che possiamo tranquillamente definire criminali, dove l’oppositore che utilizza la libertà che le leggi gli garantiscono viene ammazzato; spacciando l’uccisione per un caso di criminalità comune o roba del genere.
Ci sono governi pseudo-democratici che non possiamo definire criminali, perché nessun oppositore viene assassinato, né arrestato, né esiliato, che tuttavia impongono al paese che ha la sventura di essere sotto il loro controllo un affievolimento dell’effettivo godimento dei diritti, una loro progressiva limitazione. Paesi nei quali il potere cerca quotidianamente di delegittimare il ruolo di ogni organismo di controllo, di denigrare e calunniare chiunque gli si opponga; paesi dove il potere utilizza la propria immanenza sui mezzi di informazione per snaturare la democrazia e asservirla ai propri fini, per censurare ed eliminare giornalisti e trasmissioni sgradite; paesi dove il potere sfrutta l’investitura popolare pur ricevuta in virtù delle regole concordate, per stravolgere quelle regole stesse e garantirsi la perpetuazione del mandato ad onta di esse.
A questo punto sarebbe bello poter dire: sì, certi governi nazionali, magari soprattutto un certo governo nazionale, il nostro, si comportano in questa maniera, ma le forze che lo contrastano… No, non sempre e non ovunque. Esistono realtà locali nelle quali governa chi a livello nazionale è all’opposizione, e dove pure, a volte, si ripropongono le stesse, tristi logiche che sopra abbiamo delineato: disprezzo per le regole, abuso delle pubbliche risorse, informazione economicamente condizionata, intolleranza verso chi pretende di operare e parlare non in costante ossequio al potere, ostacoli sul cammino anche professionale di chi, esercitando il culto del “bene comune”, risulta eretico rispetto a quel compiaciuto esercizio del bene privato che è ormai divenuto la religione del nostro tempo.
Non è necessario che il dissenso venga punito con la morte o la galera, perché si possa parlare di tirannide. Esistono vari gradi e intensità ai quali il vulnus alla libertà può essere portato; quelli più bassi e deboli non vanno trascurati, perché la storia ha insegnato che, purtroppo, è da questi che inizia la funesta discesa verso l’abisso.
Sappiamo bene tutti, o dovremmo saperlo, che la libertà, la democrazia non sono conquiste irreversibili. In ogni società esisteranno sempre poteri, nazionali o locali, pubblici o privati, a volte tra loro connessi, che troveranno sgradevoli la critica, il dissenso, la verità. Contro tali poteri queste conquiste vanno quotidianamente difese. Per difendere la libertà esiste un solo strumento, il suo esercizio assoluto e costante.
Per questo, quando più vediamo minacciati i nostri spazi di libertà, autonomia, indipendenza di giudizio, possibilità di espressione, tanto più è nostro dovere rafforzare il nostro impe- gno per praticarli, alzando la voce se occorre, correndo rischi, se è il caso; rifiutando le intimidazioni, le tentazioni del quieto vivere.
L’arroganza del potere ha infatti questa truce caratteristica, più ti rassegni a sopportarla, a industriarti di conviverci, più essa diviene esigente e invasiva.
Allora è indispensabile resistere. E contrattaccare.
Nota editoriale : Il Nobel a Mario Vargas Llosa
Quest’anno l’Accademia Reale svedese ha conferito il premio Nobel per la letteratura a Mario Vargas Llosa. Il premio Nobel, in tutte le sue declinazioni, è probabilmente una delle ultime cose serie che esistano al mondo. Il Nobel per la letteratura a volte viene conferito ad autori quasi sconosciuti al grande pubblico, ma sempre a giusta ragione: l’autore sconosciuto, grazie al premio, diviene famoso, troviamo i suoi testi in libreria e scopriamo quanto egli abbia meritato il riconoscimento; è il caso di Herta Müller, poetessa romena di lingua tedesca, che ottenne il Nobel l’anno scorso. Altre volte, il premio va ad un autore già consacrato, a buon diritto, dalla fama. È il caso di Vargas Llosa. L’Accademia ha legittimato la consolidata esperienza letteraria, umana e ideale di un grande maestro e chi già amava i suoi libri, assegnando a essi un posto speciale nella propria biblioteca, è come se fosse stato, un po’, premiato anche lui.
Ora dovremmo parlare di Mario Vargas Llosa, inutile; preferiamo dare la parola a lui, riportando un brano del suo bellissimo saggio, “È pensabile il mondo moderno senza il romanzo?”, pubblicato in Italia da Einaudi nell’opera Il Romanzo - volume primo, La cultura del romanzo.
“Noi lettori di Cervantes o di Shakespeare, di Dante o di Tolstoj, ci sentiamo membri della stessa specie perché, nelle opere che hanno creato, abbiamo imparato quello che condividiamo in quanto esseri umani, ciò che sussiste in tutti noi al di là dell’ampio ventaglio di differenze che ci separano. E nulla difende l’essere vivente contro la stupidità dei pregiudizi, del razzismo, della xenofobia, delle ottusità localistiche, del settarismo religioso o politico, o dei nazionalismi discriminatori, meglio dell’ininterrotta costante che appare sempre nella grande letteratura; l’uguaglianza essenziale di uomini e donne in tutte le latitudinie l’ingiustizia rappresentata dallo stabilire fra loro forme di discriminazione, dipendenza o sfruttamento. Niente, meglio dei buoni romanzi, insegna a vedere nelle differenze etniche e culturali la ricchezza del patrimonio umano e ad apprezzarle come una manifestazione della sua molteplice creatività.
Leggere buona letteratura è divertirsi, certo; ma, anche, imparare, nel modo diretto e intenso che è quello dell’esperienza vissuta attraverso le opere di finzione, cosa e come siano, nella nostra interezza umana, con le nostre azioni, i nostri sogni e i nostri fantasmi, da soli e nell’intelaiatura delle relazioni che ci legano agli altri, nella nostra presenza pubblica e nel segreto della nostra coscienza, quella complessissima somma di verità contraddittorie – come le chiamava Isaiah Berlin – di cui è fatta la condizione umana.”
Grazie, Maestro, e congratulazioni.
[Nota editoriale aggiunta: Gen 11, 2011 da Admin]
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